XIV

LA CONCLUSIONE ETICO-POETICA DELL’ESPERIENZA LEOPARDIANA E LA «GINESTRA»

Questa battaglia ideologica e storica, in forme ironiche e satiriche, sempre meglio individua i propri obbiettivi polemici e le linee del suo intervento attuale affondando le sue radici in una diagnosi spietata e acutissima delle basi stesse della direzione culturale del proprio tempo e degli atteggiamenti pratici e politici delle posizioni reazionarie o liberali in urto fra loro (nel crescente attrito fra Restaurazione e movimento nazional-liberale e costituzionale dopo il fallimento sostanziale dei moti europei ed italiani del’30-31), ma alla fine per Leopardi convergenti – ad un livello piú profondo – in vie ideologiche sbagliate e prive della consapevolezza di una «filosofia disperata, ma vera», sola capace di fondare un «progresso» di civiltà virile e disillusa, tanto diverso dai miti della «perfettibilità» ottimistica e dalla cristiana o laica fede nella natura privilegiata dell’uomo e nei suoi «paradisi» o in cielo o in terra, magari conseguibili con i progressi della tecnica e della statistica.

In questa direzione – che di tanto supera per pienezza e decisione ogni precedente modo di intervento e di polemica del Leopardi e ne brucia o gli eccessi di analisi piú complicata o i pericoli di astrattezza eroico-paradossale – il grande persuaso e «malpensante» (come il poeta si chiama nei Paralipomeni: l’opposto dunque del «benpensante» di ogni tempo e di ogni livello) impugna saldamente l’arma della ragione, di cui ora meglio vede la forza demitizzante quando si distingua per sempre dalla ragione avida e calcolatrice, e avvalori (non neghi) lo slancio fervido delle altre forze dell’uomo. E con essa, e la sua critica intransigenza, il Leopardi aggredisce nella poesia (portata prima a forme piú discorsive e poi a forme piú dense fino alla lirica finale della Ginestra che di quei toni sperimentati a diverso livello pur si alimenta spregiudicatamente) o singoli ambienti culturali-ideologici contemporanei (e dunque nel presente piú immediato) nella Palinodia e nei Nuovi credenti o la doppia faccia reazionaria e liberal-moderata della confusa lotta politica dei primi anni risorgimentali e la comune – anche se diversa – arretratezza o debolezza delle loro basi ideologiche, nel «libro terribile» dei Paralipomeni alla Batracomiomachia.

Nei Nuovi credenti l’attacco durissimo e pesante coinvolge, in modi di satira piú cronachistica, la vitalità godereccia e animalesca di un volgo senza ideali e senza forza di ribellione, il «comunque vivere» sazio di «panem et circenses», conformista e futilmente edonistico, e il volgo peggiore di quegli intellettuali napoletani, convertiti alle credenze spiritualistiche e neocattoliche e che avevano polemizzato contro la sua filosofia pessimistica esaltando con «ignoranza e sciocchezza» la beatitudine della «bella Italia», del «bel mondo», dell’«età felice», del «dolce stato mortal». Nella Palinodia al «candido» Gino Capponi l’attacco – in forme piú melodicamente eleganti ed ironiche, capaci di salire cosí all’identificazione di nuclei densi e generali – si volge all’ambiente fiorentino dei liberalmoderati riformisti con i loro ideali ottimistici, la loro fiducia nella diffusione e divulgazione cultural-giornalistica, nelle costituzioni e negli acquisti della tecnica e della statistica che il Leopardi non aggredisce tanto in sé e per sé, ma nella stolta sicurezza che essi possano di per sé eliminare la legge della prepotenza e della mediocrità, e quella della natura «empia madre», cui l’uomo non può opporsi se non proprio con la disperata consapevolezza della sua vera condizione e con la volontà eroica di una lotta contro quella malvagia «matrigna» e contro le ideologie che la trasfigurano positivamente. Ed è qui che la stessa figura dell’«intellettuale», quale il Leopardi appoggia e sostiene, appare chiaramente quella di un contestatore delle facili conquiste umane e di un sistema scioccamente o, peggio, interessatamente ottimistico, se la stessa civilizzazione colonizzatrice a lui rivela il suo calcolo scellerato e la sua «industria» consumistica, livellatrice, sopraffattrice di libere energie e di valori autonomi.

Una posizione reazionaria-scettica, illiberale e «antirisorgimentale»?

Cosí non pare, specie se si approfondisca l’indagine dei Paralipomeni, che sotto la satira dei moti liberal-costituzionali e della lotta fra questi e la reazione degli austriaci e dei loro stati vassalli in Italia, colpisce insieme – con spietata e maggiore durezza – la bestialità degli assolutisti e – con maggiore ironia e a volte quasi compassione – l’indaffararsi di uomini creduli nelle lusinghe costituzionali, nelle congiure di élites, nell’aiuto straniero e nel principio del «non intervento» senza riuscire a comprendere preliminarmente l’inganno dei loro ideali spiritualistici e ottimistici.

Sia ben chiaro anzitutto: Leopardi non è uno scettico equidistante dagli opposti avversari ed egli ben mostra di sapere cosa bolliva nei fermenti inquieti della sua epoca se in una lettera al padre poteva scrivere, il 19 febbraio del ’36, ironicamente ammonendolo e consolandolo delle sue amarezze di sostenitore del «trono e dell’altare» sconfessato, per il suo estremismo scomodo, dallo stesso Stato pontificio: «i legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa si difenda con parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversarii per ora non hanno che rispondere»[1]. Per ora!

Mentre per quel che riguarda l’assoluta intransigenza del Leopardi di questi anni ultimi nei confronti della casta sacerdotale in genere e della sua potenza mondana, si ricordi la triste e disperata affermazione della lettera al De Sinner del 22 dicembre 1836 circa la sospensione dell’edizione napoletana delle Operette: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto»[2].

Né nei Paralipomeni si può ignorare la diversa gradazione di satira dei topi risibili, ma non privi di una certa luce di compassione per la loro ingenuità, e dei granchi (gli austriaci) cui sono dedicati versi di suprema durezza, sia nella loro durezza crostacea, nella lucentezza paurosa e meccanica dei loro movimenti, sia nelle macchiette feroci di rozzezza bestiale del re Senzacapo e del generale Brancaforte che proclama la missione degli austriaci quali principali sostenitori dell’ordine reazionario della Santa Alleanza:

Noi, disse il General, siam birri appunto

d’Europa e boia e professiam quest’arte.

Ma, appunto, i moti liberal-costituzionali napoletani del ’20-21 (cui i Paralipomeni piú direttamente si riferiscono, non senza riferimenti ai moti del ’31) mostrano alla critica leopardiana la loro pietosa risibilità, non solo per la viltà dei guerrieri topi-liberali in battaglia, ma per la futilità delle loro speranze e delle loro ideologie su cui per Leopardi era impossibile impostare qualsiasi seria azione politica.

Perciò la forza animatrice del «libro terribile» (svolta entro un tono medio, epico-satirico narrativo che dà grande libertà di movimento e di passaggi dal piú divertito macchiettismo satirico a rapidi e ariosi quadri di paesaggio, a feroci moti aggressivi, a piú lievi tonalità fiabesche, a un macabro orrore e a uno «scherzo» funereo crudele e cupo: prova delle risorse cosí alacri della fantasia leopardiana di quest’ultimo periodo) consiste soprattutto nella polemica e satira dei fondamenti ideologici spiritualistici dell’azione politica degli stessi topi-liberali: la loro fiducia nella privilegiata sorte dei topi-uomini, la loro infatuazione di perfezione o di perfettibilità, la loro religiosità spiritualistica. Sicché nello svolgersi del poemetto, specie dal quarto canto in poi, le battute polemiche e affermative si infittiscono mostrando come una vera azione richiedesse per Leopardi ben altri fondamenti di pensiero «vero» (qual è per Leopardi quello dell’illuminismo materialistico piú aggressivo e conseguente[3]): la risoluta consapevolezza dei limiti della sorte umana e della sua disperata nobiltà e dignità virile, tale solo se liberata «per sempre» dalle vecchie credenze e dal loro piú assurdo riaffiorare in compromessi nuovi, retorici e mistificatori. E, mentre Leopardi sviluppa una folta battaglia contro i pensatori della Restaurazione, De Maistre o De Bonald, e anche Lamennais, la forza aggressiva si appunta sempre piú decisamente sulle credenze metafisiche e religiose quando la poesia dei Paralipomeni tocca le sue note piú alte e crudelmente fantastiche e grottesche nella descrizione dell’Averno, dove insieme «senza premi e senza pene» sono le «anime» di tutte le specie animali e dove il credulo conte Leccafondi va a cercare una vana risposta alle sorti del suo popolo da liberare con aiuti stranieri, ricevendo in risposta da quei morti – incapaci di parlare, se non con un «profferir torbo ed impuro / che fean mezzo le labbra e mezzo il naso» – una lugubre risata, risposta terribile di quel mondo ultraterreno inesistente alle ingenue speranze e credenze dei vivi illusi e illudenti.

Se questo è il centro animatore ideologico-poetico del poemetto (e dunque non una posizione di «antirisorgimento», ma di diversa prospettiva per un piú sicuro risorgimento anche nazionale intorno a cui Leopardi addensa una sorta di suo nazionalismo rinfrescato da nuove esperienze, da delusioni nell’aiuto straniero – la speranza cosí fallace del ’31 – e dalla polemica contro la boria delle nazioni oltramontane fino a crude punte xenofobe solo interamente decifrabili in un ampio contesto delle polemiche del tempo), non si creda che la prevalente pars destruens conduca il Leopardi ad un invito all’inerzia. Ché chiaro era l’invito già nel poemetto ad un agire piú consapevole e disilluso e chiara è la forza tensiva del grande animo leopardiano, coraggioso nella verità e generoso nell’aspirazione ad una virtú eroica, esaltata anche se priva di effetti pratici, che trova un’espressione ardente-amara di rara potenza nella rappresentazione della morte in battaglia del topo Rubatocchi, abbandonato dall’esercito in fuga e non degnato di uno sguardo da un «cielo» indifferente e chiuso («cadde, ma il suo cader non vide il cielo»):

Bella virtú, qualor di te s’avvede,

come per lieto avvenimento esulta

lo spirto mio: né da sprezzar ti crede

se in topi anche sii nutrita e culta.

Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,

o nota e chiara o ti ritrovi occulta,

sempre si prostra: e non pur vera e salda,

ma immaginata ancor, di te si scalda.

Ahi ma dove sei tu? sognata o finta

sempre? vera nessun giammai ti vide?

O fosti già coi topi a un tempo estinta,

né piú fra noi la tua beltà sorride?

Ahi se d’allor non fosti invan dipinta,

né con Teseo peristi o con Alcide,

certo d’allora in qua fu ciascun giorno

piú raro il tuo sorriso e meno adorno.

Da questa vasta e irraggiata battaglia polemica – variamente consolidata in una poesia cosí intessuta di spinte violente, ironiche, persin genialmente divertite e viceversa macabre e paurose, cosí ricca di sperimentazioni di linguaggio, di tinte ora piú opache ora piú accese e rapidamente distese con mano disinvolta e spregiudicata – e dall’animo insieme inasprito, severo e caldo, appassionato del «malpensante» persuaso delle sue verità, della miseria e possibile nobiltà degli uomini (centro del suo piú profondo interesse) e dell’unico loro riscatto nella resistenza alla spietata forza della natura e ai loro stessi errori ideologici e morali, la personalità leopardiana raccoglie in una estrema concentrazione tutte le sue forze e dà alla stessa poesia – rivoluzionaria per i suoi contenuti, per la sua suprema capacità di messaggio e di intervento nella storia, per la sua eccezionale novità di linguaggio – una funzione lirica di espressione-impressione, di fusione di esperienza interamente vissuta fino al martirio fisico e intellettuale e di impegno poetico coerente, nella rappresentazione attiva della propria personalità persuasa e portatrice della «buona» e «terribile» «novella» scaturita da tutta una vita.

Il poeta si identifica con tutto l’uomo e con tutti i suoi impegni, con tutta la sua coscienza e con tutta la sua volontà, con tutto lo slancio della sua fantasia supremamente inventiva e anticonvenzionale, con tutta la sua intransigenza morale. E perciò i modi stessi della sua direzione poetica estremizzano l’indirizzo di tensione scabra, scagliosa, e irradiante di luce funerea e densa, già avviata con l’apertura del Pensiero dominante, e ancor si rinnovano, si fanno piú audaci, scartano ogni concessione alla «bellezza» privilegiata del puro atto estetico recuperandola nella pregnanza di una musica arditamente sinfonica e «senza canto», nella unità di idee-intuizioni entro un linguaggio antimelodico e aggressivo, che morde ed esacerba la realtà, sprigionandone gli elementi piú concreti e densi e le prospettive ideali piú vigorose ed attive, in un ritmo grandioso, sprezzante della «misura» elegante ed equilibrata, e interamente coincidente con il passo della personalità eroica-persuasa, con il suo discorso soggettivo e pubblico, fatto per «tutti» e non perciò facile e volgarmente comunicabile e divulgativo. La poesia della Ginestra vuole insieme dire a tutti la sua parola inquietante e insieme tutti coinvolgere nei suoi problemi e nelle sue verità senza lasciarli «in calma e in riposo», senza il «lieto fine» della catarsi che non impegna e non compromette il lettore, ma invece muovendo tutte le sue forze e rinnovando la sua esperienza intera.

Per questo la Ginestra è l’espressione piú lontana possibile dalla poesia che rasserena e distacca dalla realtà dei problemi massimi dell’uomo. E non inganni – a scanso di grossi equivoci – la stessa gentile e disadorna bellezza del «fiore che i deserti consola» (dov’è la «rosa», dove sono i fiori dei giardini poetici tradizionali?), perché la sua consolazione è in verità assai singolare, se essa – nelle forme di parabola evangelica-antievangelica che il Leopardi ha scelte con polemica e geniale invenzione agganciata al capovolgimento dei versetti del mistico vangelo giovanneo: «gli uomini preferirono le tenebre alla luce» – presenta una virile immagine dell’uomo sottratto a tutte le illusioni, a tutte le speranze, a tutti gli inganni mitologico-religiosi o mitologico-prometeici e invitato – anzi comandato – a romper per sempre una concezione di accettazione della forza che lo opprime e una concezione boriosa e retorica della propria sorte privilegiata e immortale (individuale o collettiva), accettando solo coraggiosamente la verità della sua tragica e «innocente» situazione e combattendo tutti i suoi vani sforzi di velarla e colorirla con cieli metafisici e facili paradisi in terra, che costituiscono altrettante prove della sua disperata, istintiva coscienza del male che lo assedia e lo limita e lo spinge a simili «deliri» della mente e della fantasia. Né l’uomo può accettare il soave profumo di quel fiore come una gentile grazia consolatrice della poesia, rifiutandone il perentorio invito ad un diverso comportamento, magari riducendo questo ad un rilancio di «cristiana» «pazienza» e di «fraternità» di miseri, senza comprendere l’aspetto eversivo che quella stessa solidarietà sostiene e ad essa conduce con l’implacabile e trascinante consequenziarietà entro l’organico e decisivo «moltiplicatore» della poesia. Ché quella solidarietà è duramente impiantata nella nozione di un interesse comune faticosamente attuabile solo accettando l’itinerario che ad essa conduce con coraggio di verità e di volontà.

Alla fine non c’è «speranza» (magari montalianamente «inaudita mainmise del ben sul male»), ma volontà disperata, disillusa, faticosa, e la ginestra, piú che simbolo della «poesia» tout court, è simbolo della poesia di un amore «severo» che chiede all’uomo tutto quanto il poeta afferma fino alla stessa nozione e pratica di una poesia, nata solo da un impegno supremo che congiunge nell’atto poetico verità persuasa, esperienza e volontà rinnovatrice. E cosí può colorarsi – con superba padronanza dei mezzi linguistici e tecnici – di toni perentori, affettuosi, sdegnosi e irridenti, di prospettive di immagini e di paesaggi che possono passare dallo spalancarsi vertiginoso di sterminate visioni dell’infinità dei mondi e dalla severa dolcezza di una bellezza vitale (il lido di Napoli e i suoi aspetti affascinanti) allo scabro e concreto paesaggio desolato, come una crosta terrestre lacerata e scagliosa: formidabile paesaggio della campagna vesuviana con la sua «mesta landa», il «flutto indurato» della lava pietrificante, i campi «cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dell’impietrata lava, / che sotto i passi al peregrin risuona; / dove s’annida e si contorce al sole / la serpe, e dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio».

Né inganni la contemporaneità tra la Ginestra, esito supremo di questa poetica, con il Tramonto della luna di forme piú delicate ed eleganti, ma non prive, al fondo, della nuova energia poetica dell’ultimo Leopardi.

Anzitutto nel Tramonto della luna il Leopardi ribadiva le conclusioni del suo estremo pessimismo puntando piú direttamente sulla vicenda biologica dell’uomo – di ogni uomo – condannato al tramonto rapido della giovinezza con le sue «lontane speranze» e con «l’ombre e le sembianze / dei dilettosi inganni» corrispondenti a quelle di un paesaggio notturno trascolorante nel giuoco di «ombre» e di «mille vaghi aspetti / e ingannevoli obbietti», non realtà dunque ma effimero fascino ingannevole rispetto all’oscurità della notte quando il raggio della luna dilegua suscitando la «mesta melodia» del canto nostalgico del carrettiere e al crescente estraniamento dalla «vita» nella maturità e nella vecchiaia, già invasa dalla morte e di questa peggiore perché tormentata dalla persistenza dei desideri e dalla perdita delle speranze e perciò «degno trovato» degli «eterni». Cosí l’energia si cela sotto forme piú stilizzate e lucide, sotto colori piú tenui, fra metallici e crepuscolari, per erompere nella stringatezza indimenticabile della diagnosi della vecchiaia:

[...] ove fosse

incolume il desio, la speme estinta,

secche le fonti del piacer, le pene

maggiori sempre, e non piú dato il bene.

Perciò lo stesso Tramonto della luna non è in realtà tanto un pallido «ritorno» di una poetica a suo tempo realizzata e consumata[4], quanto un particolare aspetto dell’ultima poetica leopardiana e consolida comunque – nel suo nesso con la tanto piú possente Ginestra – quella persuasione materialistica e antiprovvidenziale che nella Ginestra si espande formidabile nella sua intera potenza poetica, riassorbendo in sé la verità di questo corollario pessimistico piú analitico e la certezza qui particolarmente espressa della assoluta vanità della «speranza» e della «felicità» tanto a lungo disperatamente perseguita o nei piaceri della immaginazione o nella sua lontana possibilità nello stato «naturale» e classico-eroico, e ora del tutto dichiarata impossibile ed esclusa dalla stessa vicenda biologica dell’uomo di ogni tempo.

Sicché nel rapporto tra Tramonto e Ginestra il Leopardi poté in questa interamente volgersi alla sua suprema lezione poetico-morale, priva di ogni superstite illusione e speranza, sostituita dalla volontà eroico-persuasa nell’hic et nunc, nella storia attuale e nelle sue prospettive di un futuro illuminato solo dalla energia del coraggio dell’uomo «vero», non «malgrado», ma in forza della disperata verità e della sua disperata volontà di civiltà solidale, fraterna e combattiva, frutto del suo operare, della sua prassi disillusa, non di illusioni e speranze, che fan tutt’uno con gli inganni della natura e con il massiccio e scellerato errore del suo sistema demistificato, e cosí oggetto solo di battaglia e di attiva contestazione insieme alla collaborazione ad esso da parte degli illusi, degli sciocchi, degli interessati suoi sostenitori reazionari, che sviano l’uomo dall’unico suo «progresso» di verità, di comportamento, di azione, violenti come la natura[5], ingannatori come lei e come lei intesi a vincolare la suprema libertà della ragione umana. Sapere aude, ma anche – al di là della saggezza illuministica – osa di agire coerentemente alla verità, rifiutando il piú privato cultiver son jardin e l’espérance che ribalta nel voltairiano Désastre de Lisbonne la corretta analisi del male di tutti, cosí come la sapienza dei soli intellettuali vien rotta dalla affermazione leopardiana che la «verità» è dovuta a tutti in un profondo accordo fra il «volgo» liberato dai miti e l’intellettuale che tale liberazione opera in una costruzione sociale senza altre mediazioni e senza cesure sociali-culturali.

La realtà naturale è crudele ed ostile e l’uomo conoscendola la contesta con il suo atteggiamento ribelle e con la sua apertura individuale-sociale rinsaldata non da tentativi di armonia fuori di se stesso, ma dalla sua posizione autonoma e dal suo contrasto interamente umano con la natura, ricreando l’integralità umana (mèta costante dell’appassionata ricerca leopardiana) solo nell’uso intero delle sue sole forze, impiegate fino in fondo e mai scompagnate dalla verità e dalla consapevolezza della sua tragica sorte e della resistenza durissima della natura.

Ma tutto l’enorme materiale di persuasioni e di lezioni della Ginestra vive – ripeto – in grande poesia (la piú sconvolgente e moderna di questo «nostro» poeta) coerentemente rivoluzionaria nella sua costruzione e nel suo linguaggio, nella sua tecnica e nel suo ritmo.

Lo stesso modo con cui nella Ginestra il Leopardi alimenta questa poesia, lontanissima da ogni décor classicistico e da ogni smaltatura neoclassica come da ogni effusività di tipo basso-romantico, con echi e richiami larghissimi della letteratura illuministico-preromantica, nella loro convergenza di pessimismo profondo ed aggressivo, di poesia-battaglia e persuasione eroica[6], è singolarmente nuovo per la libertà e la spregiudicatezza con cui il poeta scaglia quei richiami a piene mani nel magma ardente della sua tensione espressiva trascinandoli, riassorbendoli – sí che non fanno mai macchia a sé – nella congeniale ma tanto maggior pressione di pessimismo combattivo a cui tanti stimoli aveva offerto – a vario livello dei tempi leopardiani – quella zona letteraria e spirituale e che perciò li utilizza con un piglio deciso e meno curante di una mellificazione sottile o di un intarsio sapiente. Ché in questa superba costruzione sinfonica conta soprattutto (e comanda tutte le singole immagini e i singoli procedimenti tecnici) la forza centrale unitaria che si fa ritmo e regola delle stesse misure tentacolari delle strofe lunghissime e trascinanti, del loro linguaggio aspro e scabro, scaglioso e violento anche nei moti piú affettuosi e appassionatamente dolci, identificandosi totalmente con il ritmo della coscienza morale e dell’impegno annunciatore e pragmatico di questa personalità che si possiede interamente di fronte alla morte, al presente, al futuro spalancato con mano impaziente e salda[7].

E proprio guardando alla costruzione sinfonica e alla sua misura travolgente, al suo respiro lunghissimo e alle sue scansioni irruenti e tempestose, meglio si vincerà il vecchio dissenso critico fermo all’idea cocciuta di una frammentarietà e di un amalgama indigesto di toni diversi e di alternanze fra momenti poetici di idillio cosmico e momenti oratorii, didascalici, descrittivi.

Unitario è infatti il modo della costruzione a strofe lunghissime e come tentacolari, unitario è l’uso delle rime che si rarefanno e si infittiscono a richiamare e a sottolineare parole e nuclei tematici (e spesso sono spregiudicatamente parole-rime fuori di ogni ricerca qui abbandonata di diversificazione piú elegante e preziosa), unitario è il tono che sorregge il linguaggio energico adoperato per il paesaggio come per le mosse eroiche della personalità severamente sdegnata di fronte alla stoltezza del «secol superbo e sciocco» o alla crudeltà neroniana della natura

([...] Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto)

o severamente fraterna nella nobilitazione dell’uomo persuaso ed ardito, esprimente, con energia immutata, le condizioni del suo «vero amor» nel coraggio intero della verità («nulla al ver detraendo», «siccome è il vero», «con vero amor»: altrettante riprove della forza poetica quasi ossessivamente e tenacemente avvinta alle sue parole e ai suoi nodi fondamentali):

Nobil natura è quella

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra sé confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune.

Unitari, ripeto, i momenti astrattamente diversificabili di contemplazione e di polemica e affermazione, espressi con lo stesso accento e lo stesso tono in un’inseparabile organicità. Come può ben vedere chiunque consideri, ad esempio, la formidabile strofa quarta, in cui dalla considerazione della infinità dei mondi e della piccolezza della terra il poeta passa, senza diversità d’ispirazione, ma anzi con necessaria consequenziarietà poetica, alla polemica contro le ideologie ottimistiche scandite con la stessa ispirazione che sorregge l’immergersi tutt’altro che «idillico» nel gorgo della contemplazione dell’immensità della volta celeste:

Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor piú senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o cosí paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell’uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiú, di cui fa segno

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Un riso cattivo e maligno di escluso, di incapace di vita (come immaginava il «cristiano» e spiritualista Tommaseo quando rappresentava «le petit comte» che dondolandosi sulla riva del mare canterellava l’odioso ritornello: «il n’y a pas de dieux parce que je suis bossu, je suis bossu car il n’y a pas de dieux») e una pietà rugiadosa e indulgente di tipo pascoliano («è la pietà che l’uomo all’uom piú deve / persino ai re, persino a te, Lucheni»)? E magari (secondo certi ingenui o interessati convertitori post mortem e ricercatori di albe di fede o di religiosità negativa) una conferma a contrario di una bestemmia foriera di fede?

La stessa poesia della Ginestra conferma nei suoi particolari modi poetici la falsità di ogni simile stortura, ché essa ed essi sono veramente espressione di una terrena unica realtà in cui il poeta opera e scava, interamente chiuso ad ogni evasione da quella, dalla sua compatta concretezza da trasformare e forzare dal suo interno, non da eludere e sopperire con qualsiasi altra forma di realtà o di mezzo operativo diverso da quello materiale-razionale che il Leopardi adopera nella sua poesia tutta umana e terrena fino allo spasimo della materia lacerata e violentata di un linguaggio fisico e razionale-fantastico solo cosí poetico e criticamente comprensibile nella sua poeticità.

Arduo sarebbe prospettarsi la precisa continuazione di questo futuro nella ipotetica continuazione della vita leopardiana e domandarsi la precisa configurazione di ulteriori apporti su questa onda lunga scatenata dall’ultimo Leopardi della Ginestra, immaginandolo, col De Sanctis, sulle barricate del ’48, o con altri, su precise vie dei nuovi movimenti rivoluzionari democratici e democratici-proletari[8].

Quello che è certo è che il Leopardi con la Ginestra – e con il suo appello etico-poetico ad un’azione doverosa degli uomini illuminati dalla luce della verità laico-materialistica e dal suo profondo sentimento democratico (qualunque ne fosse il livello di preciso orientamento comunque chiaramente antireazionario e antimoderato) e comandati alla costruzione di una nuova società – concludeva – sulle soglie della morte – la sua formidabile esperienza di vita e di poesia, non in una misura pacificatrice e rasserenante, ma in un’apertura inquietante e sollecitante che supera, nel suo tempo e a livello europeo, ogni altra soluzione poetico-morale, cosí come la crisi che essa comporta non appare quella di «un quarto d’ora» (per dirla col De Sanctis), se la poesia scaturita da quella crisi e culminata nella Ginestra ci parla, nella sua consistenza poetica, ma con prospettive problematiche ancora vive e dense di nodi irrisolti. E soprattutto cosí fortemente ci dimostra, con una suprema lezione di poesia e di verità morale e pragmatica, la forza rivoluzionaria della grande poesia e il fatto che, se coraggio, vigore intellettuale, coscienza morale non fanno di per sé poesia, la grande poesia non sorge che sul coraggio della verità, su di una grande coscienza morale, sulla profonda partecipazione alla storia degli uomini.

E fra tanti camuffamenti e «maschere» – alibi di letterati tanto piú frivoli e «letterati» quanto piú cupo e drammatico, eppur tutt’altro che chiuso, è il presente – quella voce di grandissima poesia tuttora porta stimoli allo stesso senso e significato della grande e vera letteratura. «Que peut la littérature?» ci si domanda spesso oggi. Forse la rinnovata lettura e la comprensione di questo grandissimo scrittore può aiutare meglio a rispondere.


1 Tutte le op. cit., I, pp. 1410-1411.

2 Tutte le op. cit., I, p. 1415. Circa simili posizioni affermate nell’epistolario senza alcuna reticenza si ricordi ancora il riferimento alla potenza del «gesuitismo» come promotore di onori ecclesiastici a quel Mai (e al Mezzofanti) la cui filologia appariva – sin dai tempi del soggiorno romano del ’23 – assai meno meritevole di quanto fosse apparsa agli entusiasmi della canzone Ad Angelo Mai: «Da me so bene che non aspettate nuove di filologia, perché qual filologia in Italia? È vero che Mai è sul punto di vestire la porpora, e Mezzofanti gli verrà appresso; ma essi ne sono debitori al gesuitismo e non alla filologia» (al De Sinner, 3 ottobre 1835, in Tutte le op. cit., I, pp. 1408-1409). Quanto alla persecuzione ecclesiastica delle Operette morali, essa fu sancita solennemente nel 1850 con la loro inclusione nell’Indice dei libri proibiti.

3 Donde l’appoggio di certi passi del poemetto a Volney, Dupuis, D’Holbach, ben rilevati nell’esauriente analisi ideologica dei Paralipomeni condotta da G. Savarese nel suo Saggio sui Paralipomeni di G. L., Firenze, 1967.

4 Ciò negavo già nella mia Nuova poetica leopardiana, ma con un giudizio ed analisi che ora ritengo dovrebbe essere piú puntualmente riveduto, senza disdire quanto di giusto vi era nelle indicazioni di quel libro e nelle successive indicazioni del mio saggio citato Leopardi e la poesia del secondo Settecento.

5 Si noti come dalla costatazione della legge «naturale» di distruzione, di lotta, di morte, un reazionario come il De Maistre ricavasse – in pagine sconvolgenti e feroci, percorse dal grido ossessivo che sale dalla natura: «tue, tue» e da quello della terra «qui crie et demande du sang» – la legittimazione «naturale» e, quindi, addirittura «divina» della guerra fra gli uomini e fra i popoli (v. lo scritto La guerre est divine in J. De Maistre, Du pape. Lès soirées de Saint-Petersbourg et autres textes, Paris, Pauvert, 1964, soprattutto le pp. 80-83).

6 Echi di Fontenelle, di Voltaire, di D’Holbach, di Bettinelli o di Young, di Castel, di Delille, di Legouvé, di Delavigne e Chênedollé, di Volney fino ad echi dei passi piú cupi dei Sepolcri foscoliani e alle impostazioni di coraggio morale e di autoritratto emblematico del Parini e dell’Alfieri: «né s’abbassa per duolo / né s’alza per orgoglio». «Uom di sensi e di cor libero nato», l’immagine pariniana del «buon cittadino» nella Caduta e quella alfieriana dell’uomo libero e in perenne guerra con ogni viltà e con ogni tirannia.

7 Una certa persistente e ritornante chiusura al valore poetico della Ginestra è stata recentemente dichiarata, in forme molto personali e impressionistiche (come molto personali e impressionistiche sono le considerazioni su tutta la poesia leopardiana in un suo successivo elzeviro del 16 agosto ’72 sul «Corriere della sera») da Carlo Cassola in un brevissimo asterisco da lui dedicato a questo mio saggio sullo stesso giornale in occasione dell’uscita della mia edizione di Tutte le opere di Leopardi. Ma non è il caso di annettervi troppa importanza di segno sintomatico, ché (come notò R. Bertacchini in una fervida recensione del mio saggio in «Rassegna di vita e cultura scolastica», 1970) la posizione di Cassola è particolarmente legata alla poetica di quello scrittore e al suo crescente disimpegno e rifiuto di ogni opera nutrita di idee e «messaggio» (del resto il mio amico Cassola rifiuta anche il Canto notturno e si ferma su canti che piú gli ricordano situazioni e impressioni autobiografiche sue). Piú può colpire (anche per il côté da cui proviene) la limitazione della Ginestra (e in genere di tutti i canti posteriori al periodo pisano-recanatese) nel capitolo leopardiano della Sintesi della storia della letteratura italiana, Firenze, 1972, di A. Asor-Rosa, su cui meriterebbe aprire un lungo discorso per le implicazioni che le sue affermazioni comportano. Basti qui rilevare che quanto l’Asor-Rosa dice circa il pericolo di privilegiare il messaggio in senso didascalico-pragmatico della Ginestra a scapito della vera poesia leopardiana, può mostrare oltretutto un fraintendimento, per quanto mi riguarda, della mia valutazione della Ginestra: chiunque abbia letto, con attenzione, le mie pagine dedicate alla Ginestra in vari miei scritti leopardiani non può non aver compreso che la mia valutazione altamente positiva è basata sulla certezza affermata e dimostrata che il Leopardi vi agí come «poeta», con le forze e le forme organiche della poesia corrispettive ad una certa poetica, e non come predicatore giudicato solo per il valore contenutistico del discorso. Potranno invece essere qui ricordate, come segno comunque dell’interesse altissimo per la Ginestra in tempi recenti o abbastanza recenti (seppure in linee ideologico-estetiche diverse da quelle che avvicinano al fondo le posizioni mie e di studiosi come Luporini, Timpanaro e altri) sia il forte rilievo dato a quell’opera come decisiva nell’«eredità di Leopardi» da parte di C. Bo (nel saggio che apre il volume L’eredità di Leopardi, Firenze, 1964), sia, e piú direttamente nel senso della sua grandezza poetica, la valutazione altissima che ne dette Ungaretti nelle sue lezioni romane del ’51 (cfr. gli appunti di quelle lezioni raccolti nella rivista «Prospetti», 18-19, 1970, a p. 159 per la frase qui citata) affermando che la Ginestra «resta la piú alta poesia del Leopardi e forse nel mondo durante questi due ultimi secoli»: anche se Ungaretti dava della Ginestra una interpretazione in chiave cristiana, cosí come non mancarono, in rapporto alle posizioni della mia Nuova poetica leopardiana, gravi fraintendimenti appunto delle mie posizioni come se anch’io avessi finito per postulare una specie di solidarismo di tipo cristiano o di qualunquistica «pietà» e fraternità per tutti gli uomini non passati attraverso la severa lezione di verità materialistica e pessimistico-eroica che il Leopardi pone alla base del suo formidabile appello pragmatico-poetico, ma pur tutto poeticamente espresso.

8 Aperta è tutt’ora la discussione (sempre vivacissima e sollecitante, al di là delle posizioni risorgimentali desanctisiane, e dopo la nuova apertura discutibile e pur ben importante del Salvatorelli, fra le proposte di un Luporini, di un Timpanaro, di un Biral e di altri) su ciò che il finale appello leopardiano importa per il futuro che si apriva di fronte al poeta. A me pare che ogni precisazione eccessiva e stretta rischia di perdere la fertilità profonda e complessa dell’appello leopardiano (tanto piú feconda e complessa nella sua espressione poetica che ne moltiplica la forza stimolante e problematica: la poesia propone piú problemi e aperture che precise soluzioni). Comunque chiara è la direzione antireazionaria, contestatrice, protestataria della finale tensione leopardiana, chiari ne sono gli obbiettivi polemici e gli stimoli verso una società umana totalmente diversa da quella in cui Leopardi viveva e che Leopardi vedeva costruirsi nella situazione della Restaurazione e del liberalismo borghese. Come, comunque, chiaro è il legame fra l’appello della Ginestra, il fondo di meditazioni etico-politiche (esaltazione delle antiche repubbliche democratiche, avversione ai compromessi delle monarchie «costitutive» e ad ogni forma ideologica e pratica della Restaurazione) che corre entro lo Zibaldone e la battaglia satirica (si pensi alla Palinodia) contro l’aggancio fra l’ottimismo perfettibilistico e spiritualistico dei liberalmoderati e l’infatuata esaltazione della nascente tecnologia e della sua risolutività corrispondente alla tendenza della nascente organizzazione capitalistico-borghese. Il che – si noti bene – non riporta Leopardi al mito, in lui ben consumato, della vita secondo natura (come parrebbe intendere G. Ceronetti nel saggio Intatta luna nel volume Difesa della luna, Rusconi, Milano, 1971) né apre vera contraddizione fra Palinodia, Paralipomeni e Ginestra, seppure è nella Ginestra che l’elemento piú attivo del pessimismo energetico e «progressivo» del Leopardi trova la sua espressione piena, ardita, aperta, e pur non separabile dalla molla complessa del suo lungo itinerario riflessivo, morale, poetico e specie della piú forte tensione della nuova poetica dopo il ’30. Ché quanto piú il suo pessimismo si fa profondo, cosciente di tutte le sue componenti e implicazioni e sempre meglio fondato sul suo saldissimo materialismo, tanto piú ne scatta la conseguenza doverosa di un’azione e di uno stimolo (avvalorato dalla sua intera espressione poetica) all’azione per una nuova civiltà e società totalmente umana, basata sulle sole forze dell’uomo. Non diremo perciò «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà», secondo la formula di Gramsci (il quale poi, malgrado l’attrazione profonda per il Leopardi, non riuscí a superare certi limiti dell’interpretazione desanctisiana: v. lettera a Julka, 5 settembre 1932 – in Lettere dal carcere, Torino, 1965, p. 670 –, con le sue frasi comunque ben significative per il valore dato alla sua simpatia per Leopardi «nonostante il suo pessimismo»), ma certo diremo che proprio quel pessimismo estremo comanda un’azione doverosa degli uomini «consapevoli», della verità, per «l’util comune» e per una nuova società, mentre quel pessimismo presuppone la difficoltà di quell’azione e di quella conquista aprendo spiragli ben vivi su di una problematica sempre piú chiara a chi, scegliendo la via del doveroso «progresso» umano e di una società di liberi ed eguali (e non dunque di una massificazione che disconosca le esigenze positive degli individui), ne avverte insieme l’ardua complessità, i limiti risorgenti di fronte agli uomini, e dentro agli uomini ed evita ogni tentazione semplicistica, trionfalistica, di soluzioni perennemente valide e non piú messe in discussione e in pericolo.